In questo periodo, i miei pomeriggi (ed anche le notti, a dirla tutta) sono occupati dal montaggio del recente Italian Pole Dance Contest di Modena. Un lavoro abbastanza classico: camera centrale a riprendere le esibizioni intere e macchina a mano per rubare qualche emozione, qualche primo piano. Sguardi. Occhi. Corpi.
Io e Eliana ci alterniamo, perché lo zoom pesa, e molto. Nello schermino di riferimento non tutto è chiaro: sarà a fuoco? Sarà ben composta? E se ora la tizia andasse in verticale d’improvviso, io come farei a seguirla? L’unico modo per controllare le riprese è a casa, davanti ad uno schermo abbastanza grande. Ed è a casa che vedi, per la prima volta, le emozioni. Tensione. Sorriso. Presa mancata. Imbarazzo. I giudici mi stanno fissando. Potrei cadere. Hanno visto l’errore. Ecco i miei amici. Canto.
Paura.
Eppure l’ho provata e riprovata, a casa (è sempre lì che si torna). L’ho provata e riprovata in palestra. Sono mesi, mesi che mi alleno! E allora, cosa c’è?
C’è il contesto.
Il contesto è tutto.
Le prove sono fondamentali; gli esercizi rendono tua l’esibizione, ti fanno entrare nei cluster e nei beat della musica; lo specchio può aiutare per lo sguardo, per l’espressività. Ma le prove non sono, per loro stessa ontologia, l’esibizione (lat. ex-habère, letteralmente avere, tenere fuori; far vedere, mettere in mostra, far notare in pubblico). Ed è il contesto dell’esibizione che rende tutto catastroficamente più complicato: è la presenza degli altri. Amici (con relativi striscioni), parenti (abbiamo visto due meravigliosi genitori ultra settantenni, quest’anno, sostenere la loro piccola Freddie Mercury!) e, sopra ogni altra cosa, il severo giudizio degli esperti.
Non è forse vero che gli stessi trick, le stesse transizioni, le inversioni, i jade e le onde, saranno percepite in modo diverso se eseguite in una palestra, in un teatro o addirittura in un night?
Eppure l’ho provata e riprovata, a casa.
Il contesto è tutto.